Chi ha vinto le amministrative (analisi di soli numeri, astenersi perditempo).

C’è chi parla di centrosinistra avanti in 16 capoluoghi e chi parla di flop del Movimento 5 Stelle. C’è anche chi parla di un Partito Democratico che, a Roma, è dimezzato. Pochi, forse nessuno, ha notato l’inesistenza di Scelta Civica e Montiani che, a livello locale, praticamente non si presentano da nessuna parte.

Alle numerose analisi che i più dotto editorialisti ci stanno proponendo in queste ore, dalle quali deducono la bocciatura dell’elettorato grillino all’operato dei loro portavoce in Parlamento, aggiungo la mia, preceduta da una considerazione: il voto alle amministrative è profondamente diverse rispetto al voto alle elezioni politiche e, per certi versi, più simile al voto alle elezioni regionali. Si vota il candidato, la scelta è secca, le conseguenze della mia scelta hanno ricadute molto prossime, sia fisicamente che politicamente. Alle elezioni amministrative, quello che viene chiamato  “voto di protesta” è fisiologicamente smorzato da questi fattori. Lo abbiamo visto benissimo in Lombardia, dove il 24 e 25 febbraio Silvana Carcano – candidata presidente del M5S – ha ottenuto 782mila voti, contro oltre 1.100mila ottenuti dal M5S, in Lombardia, alle Politiche.

A tutto ciò dobbiamo aggiungere un altro elemento: l’astensione. Rispetto al 24 e 25 febbraio è aumentata di diversi punti percentuali.

Muovendo da qui, ho considerato e paragonato i risultati delle regionali a Roma e a Brescia con quelli delle amministrative di questi giorni. I votanti sono diminuiti rispettivamente di 383mila unità (-23,5%) e di 20mila unità (-17,8%).

Guardando i voti espressi a Brescia e a Roma e paragonandoli con il voto delle regionali otteniamo:

VOTANTI CSX CDX M5S PD
Brescia -20089 -15080 -8300 -5405 -8404
Roma -383065 -202628 -27837 -167258 -158629

In termini percentuali otteniamo:

VOTANTI CSX CDX M5S PD
Brescia -17,8 -30,5 -19,5 -45,1 -28,3
Roma -23,5 -28,3 -7,1 -52,8 -37,2

Quel che è interessante notare è che tutti i principali schieramenti perdono voti, discostandosi in maniera quantitativamente differente rispetto all’astensione. Da notare che gli unici risultati “confortanti” sono quelli del centrodestra, che a Brescia registra un calo di voti in linea con l’astensione e a Roma è riuscito a neutralizzare l’astensione e ad andare in positivo.

Per misurare quanto si discostano dall’astensione ho semplicemente “spalmato” l’astensione registrata alle comunali sul voto delle regionali, e ho guardato quanto si discosta il risultato reale da questo risultato teorico al netto dell’astensione (spalmata grossolanamente su tutti gli schieramenti, ma diffidate anche di chi politicizza l’astensione).

Di seguito i risultati, in termini di voti assoluti e percentuali:

Scostamento dal risultato teorico al netto dell’astensione (assoluto).
CSX CDX M5S PD
Brescia -6277,4 -713,1 -3270,2 -3124,9
Roma -34521,2 64323,9 -92781,1 -58464,0

Scostamento dal risultato teorico al netto dell’astensione (percentuale).
CSX CDX M5S PD
Brescia -15,4 -2,0 -33,2 -12,8
Roma -6,3 21,4 -38,3 -17,9

A Roma, praticamente, ha vinto il centrodestra. E a Brescia ci è andato molto vicino.

Il calcolo è puramente matematico e ho esplicitato le condizioni di partenza, così come ho esplicitato che “spalmare” l’astensione può non essere politicamente corretto. Però, appunto, le considerazioni politiche le lascio ad altri.

Cose che cambiano

Tira una brutta aria all’interno del Partito Democratico; lo schema sembra essere «Renzi contro tutti». Si segnalano, nel frattempo, due cose.

La prima è che alla guerra intestina si affianca l’iniziativa costruttiva di Pippo Civati che, ieri, a Parma, ha dialogato con il capogruppo del Movimento 5 Stelle in comune, Marco Bosi. Cose mai viste, eppure così semplici, soprattutto quando ci si trova a parlare di persona, personalmente, oltre i pregiudizi e gli schemi brutti e rigidi che ereditiamo dalla seconda Repubblica. La registrazione la trovate qui ed è fortemente consigliata, mentre di seguito il commento di Marco Bosi e di Mara Mucci, parlamentare del Movimento. Le cose, come diciamo da tempo, si cambiano cambiandole:

Le cose cambiano anche su altri lidi. Perché se nel PD si parla di scissione, nella Lega una piccola scissione è avvenuta oggi. Avevamo già parlato del clima teso all’interno del Carroccio, che oggi è sfociato nell’espulsione di cinque militanti su un totale di diciassette casi esaminati. Tra i cinque, Santino Bozza: consigliere regionale veneto e Bossiano di ferro. Che non l’ha presa bene: «Il problema non è Roberto Maroni o Umberto Bossi, l’unico problema è Flavio Tosi e quanti non hanno a cuore il Veneto» e ha così annunciato la costituzione di un nuovo gruppo in Consiglio regionale:

«Un gruppo – rileva – non per stare all’angolo ma per far entrare tutti gli altri leghisti, mettendo così in evidenza la solitudine di Tosi, unico vero artefice della sconfitta elettorale della Lega in Veneto». «Tosi da fascista qual è – sottolinea – per correre ai ripari ha sguinzagliato i suoi caporalini in giro per il Veneto, ha registrato il dissenso nei suoi confronti e ha cominciato a colpire. Ora tocca a noi aspettarlo al varco – aggiunge – quando caleranno i tesseramenti, quando si vedrà il voto delle amministrative senza il nostro appoggio».

Contro Tosi l’asse Treviso-Venezia-Vicenza.
 «Tosi non ha capito – dice Bozza – che contro di lui non ci sono solo quattro gatti, ma c’è addirittura un asse tra Treviso, Venezia e Vicenza. Tosi fa la voce grossa – conclude Bozza – perché sa di essere un uomo finito che trova la spalla solo di qualcuno che però sta in Lombardia, non nel Veneto».

Differenze nell’affluenza alle primarie tra il 2005 e il 2012

Mentre aspettiamo i risultati del ballottaggio, vi offro una lettura territoriale sull’affluenza alle primarie del centrosinistra confrontando le mitiche “primarie di Prodi” del 2005 con il primo turno delle primarie 2012.

Alle primarie del 2005 parteciparono 4 290 388 persone in Italia, alle primarie del 2012 ne sono state contate 3 105 902. Più di un milione di persone in meno, pari ad un -27.6%.
Come si è distribuito livello territoriale questo calo dell’affluenza?

L’unica provincia che ha mostrato un forte aumento è stata quella di Messina con un +34.8% (non vorrei che il dato fosse sbagliato, ma La Provincia di Messina conferma il dato di circa 30 000 voti nel 2012). Tre province mostrano un elettorato stabile: Firenze, Barletta-Andria-Trani e Vibo Valentia. Tutte le altre mostrano un segno negativo. Ma non tutte allo stesso modo.

Differenza Affluenza per Provincia 2

Al Nord (del Po) le province che mostrano una maggiore perdita di votanti (colore verde chiaro) sono le province tradizionalmente più a sinistra: Trieste e Gorizia nel Friuli/Venezia Giulia, Venezia e Rovigo in Veneto, Trento, Mantova e Cremona in Lombardia, Torino in Piemonte, Genova e La Spezia in Liguria.
Al contrario le province che perdono di meno sono quelle più a destra (colore verde scuro): Bergamo e Sondrio in Lombardia, Cuneo in Piemonte, Imperia in Liguria.
Sembra che in questa parte d’Italia sia andato a votare prevalentemente lo “zoccolo duro” dell’elettorato di centrosinistra, quello più stabile.
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Nelle “regioni rosse” del Centro-Nord la situazione cambia, in Emilia la provincia con la minor perdita di voti è naturalemente Piacenza, luogo d’origine del segretario PD Pierluigi Bersani. In Toscana la provincia che perde di più è Lucca, tradizionalmente più a destra. Firenze, di cui è sindaco Matteo Renzi, mantiene gli stessi voti del 2005 (colore grigio). In più, altre province che mantengono comunque un alto numero di voti, sono Siena, Prato, Pistoia, Arezzo e Grosseto. La Toscana è la Regione che ha perso meno votanti tra 2005 e 2012: -13%, come la Basilicata. In Umbria e Marche la perdita di voti è invece in linea con la media nazionale.
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Al Centro-Sud la situazione cambia di nuovo. Sono riconoscibili tre zone.
La prima zona, che comprende Lazio, Abruzzo, Molise e Nord della Campania, cui si aggiunge la Sardegna, mostra la più grande perdita di votanti (colore verde chiaro).
La seconda zona, che comprende Salerno, Basilicata e Calabria, mostra invece la minor perdita di voti (color verde scuro e grigio).
Come già detto da Stefano, in entrambe queste zone al primo turno ha vinto Bersani. Ma c’è un però: come ho scritto nell’ultimo post, nella prima zona (verde chiaro) è andato particolarmente forte Nichi Vendola, mentre nella seconda zona (verde scuro) Bersani non ha avuto rivali.
A Sud delle “regioni rosse” l’alta percentuale di votanti ha premiato Pierluigi Bersani.
La terza zona è costituita dalla Puglia, dove le poche perdite nell’affluenza sono probabilmente dovute alla candidatura del governatore locale Nichi Vendola (ne avremo conferma definitiva dopo il ballottaggio: la Puglia sarà probabilmente la regione del Centro-Sud che perderà più votanti tra primo e secondo turno delle primarie 2012)
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Il comportamente elettorale della Sicilia è per me un mistero di fede, e non commento nulla. Lo si accetti così com’è.

Meglio che vado a votare, va.
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Note: I dati 2012 sono stati presi da qui (copia dei risultati ufficiosi comparsi – e scomparsi- nel sito del comitato ItaliaBeneComune). I dati 2005 da qui. Per i dati 2012: i dati forniti per la Provincia di Padova e per la Provincia di Massa e Carrara sono errati, per la mia mappa li ho corretti con i dati trovati rispettivamente su il Mattino e su il Tirreno. Altri dati erronei sono responsabilità del comitato nazionale Italia Bene Comune.

L’affluenza alle primarie del centrosinistra

Domani c’è il secondo turno delle primarie del centrosinistra.
Stefano ha già analizzato qui: la distribuzione territoriale del voto, che ha visto Bersani vincere in quasi tutta Italia, con l’eccezione: 1) della Toscana, di parte di Umbria e Marche e di alcune province “ex-bianche” del Nord che sono andate a Renzi e 2) di tre province pugliesi andate a Vendola.

Da quel che ne so, se molti si son chiesti “chi ha vinto dove”, nessuno si è chiesto “chi ha votato dove”. Per cui ecco una mappa dell’affluenza al voto per provincia.

Affluenza per Provincia 4Come dato nazionale, l’affluenza è stata del 6,6%.

A livello territoriale, niente di nuovo.
Le province con più alta affluenza sono nella “regioni rosse” del centronord:  Emilia-Romagna, Umbria, Toscana con la tradizionale e secolare eccezione di Lucca.

Firenze, la provincia con la più alta affluenza, al 20,3%, Bolzano quella con la più bassa, all’1,7%.

Al Sud ben sopra la media nazionale la Basilicata. Sopra la media anche le grandi città di Roma e Milano.

L’affluenza è invece bassa nella zona a Nord del Po. A parte Milano e la Spezia, tutte le province segnano un’affluenza inferiore alla media nazionale. Il centrosinistra sembra continuare ad avere problemi a far partecipare chi vive in questa zona del Paese (che rappresenta il 38% della popolazione italiana e il 46% del PIL nazionale, ma solo il 31% dei votanti alle primarie).

Una situazione comunque non dissimile a quella che vi è a Sud delle Regioni rosse: da Terni in giù vive il 47% della popolazione ma solo il 38% dei votanti alle primarie.

In Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche, le “Regioni rosse” vivono invece il 18% degli italiani e il 34% dei votanti alle primarie.

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In più, per i patiti del genere, un’altra mappa!
Questa mappa mostra le preferenze territoriali dei 5 candidati.
A scanso di equivoci, questa mappa NON mostra quanto forte è un candidato in una determinata provincia: Stefano ha già spiegato che Bersani è il più forte un po’ in tutte le province d’Italia tranne in Toscana, Umbria, Marche, qualche provincia del Nord e tre province pugliesi.
Invece, la mappa mostra, per ogni territorio, quale candidato ha ricevuto una preferenza maggiore rispetto alla media nazionale.

Preferenze Territoriali per ProvinciaCome prevedibile, Laura Puppato mostra un legame particolare con le province trivenete, anche se con qualche eccezione.

Nichi Vendola ha ricevuto una preferenza particolare prevalentemente al Sud: nella sua Puglia, in Molise, in Abruzzo. Ma anche nelle province comprendenti le grandi città: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Bari, Catania. Come dice l’ANSA, Bersani va più forte di Renzi nelle città, ma questo è probabilmente dovuto alla forza di Vendola.

In qualche modo speculare a Vendola, troviamo Renzi. Matteo Renzi ha ricevuto voti superiori alla media nazionale solo nelle province a Nord di Roma: Toscana, Umbria, Marche ma anche in alcune province “rurali” a Nord del Po.

In controtendenza, Pierluigi Bersani è andato bene un po’ in tutta Italia: Nord e Sud. In alcune province padane, così come in Liguria, Basilicata, Calabria e Sardegna, per gli altri candidati non c’è stata storia.

Altro candidato il cui voto è ben distribuito a livello nazionale è Tabacci. Bruno Tabacci ha fatto male un po’ ovunque con l’unica eccezione di Benevento, dove è riuscito ad arrivare terzo dopo Bersani e Renzi. Ed ad alzare l’affluenza al di sopra della media nazionale.

P.s. I dati ufficiosi del comitato Italia Bene Comune per la provincia di Padova sono sbagliati (i dati sono scomparsi dal sito ufficiale, ma c’è una copia qui). Ho corretto con i dati trovati su il Mattino. Di quest’errore mi sono accorto io, non sono responsabile di eventuali altri errori del comitato.

Nelle terre del nord dove vince Renzi

L’esito del primo turno delle primarie del centrosinistra ci racconta di un Matteo Renzi trionfatore nella sua Toscana, dove è stato capace di portare al voto molti nuovi elettori, e capace di ottenere risultati migliori al nord piuttosto che al sud, dove spesso è stato scavalcato, al secondo posto, da Nichi Vendola. Cosa che possiamo leggere come incapacità di parlare al sud o come buona capacità di parlare al nord.

Se guardiamo ai dati, nella maggior parte delle province del Nord ha vinto Pierluigi Bersani, al primo turno (mappa a cura di Valerio):

Le province in blu del «blocco del nord» dove ha vinto Renzi non sono molte, in realtà: Cuneo e Asti (Piemonte), Como e Lecco (Lombardia), Verona e Vicenza (Veneto) e Pordenone (Friuli Venezia Giulia). Pareggio ad Alessandria (Piemonte).

La provincia che ha attirato da subito la mia attenzione è quella di Cuneo, storicamente, sin dal 1948, bastione della Democrazia Cristiana, e successivamente terra di consensi per la Lega Nord, mosca bianca nel Piemonte. In Lombardia e Veneto, invece, le zone di consenso di DC e Lega sono state sempre maggiori, ma possiamo osservare che nel 2006 la provincia di Lecco e quelle di Verona e Vicenza sono state «zone di forza della Margherita», per usare una definizione di Ilvo Diamanti, insieme alla provincia di Cuneo – appunto – e a sole altre quattro province del nord Italia.

Sempre nel 2006, le province di Cuneo, Verona e Vicenza – insieme ad altre tre, nel nord Italia – sono quelle dove l’Udc è riuscita ad ottenere i risultati migliori, superiori al 7,7%.

Probabilmente non è la scoperta di nulla di nuovo, ma sembra che Matteo Renzi riesca a fare quel passo oltre, decisivo per superare Pierluigi Bersani, nelle zone del nord dove si concentra l’elettorato cattolico, o «moderato», qualunque cosa voglia dire, e forse anche un po’ conservatore. Il che appare paradossale per un candidato che si propone come il candidato del cambiamento, del rovesciamento del tavolo di gioco. Ma appare del tutto coerente se non ci si vuole alleare con l’Udc, ma prenderne i voti. Poi, ovviamente, ci sarebbe quel problema del consenso del Sud.

Dalla “questione settentrionale” alla “questione Veneto” (seconda parte)

di Andrea Drezzadore

“Il Veneto è una regione di centrodestra”

Questo slogan-assunto è la giustificazione dietro a cui si sono succedute in questi anni vicende ed eventi che, ben lungi dallo scalfire questa supremazia, hanno portato la classe dirigente PD ad operare scelte che questa supremazia l’hanno rafforzata, rendendoci sempre meno credibile come una scelta alternativa e fornendo terreno fertile a chiunque, anche senza altro merito, ora si presenti come del tutto estraneo sia alle attuali forze di Governo, che a quelle che sono (fintamente?) all’opposizione. Come il M5S.

Ma per prima cosa partiamo dai numeri e dal loro evolversi storico.

Tra le Regionali del 1995 e quelle del 2010 si sono svolte in Veneto ben 11 consultazioni che hanno chiamato tutto il nostro corpo elettorale al voto  (4 Regionali, 4 Politiche, 3 Europee), tutte e 11 senza sovrapposizioni nello stesso anno. Se ne hanno quindi 11 fotografie, ad intervalli di tempo quasi regolari, che costituiscono una sorta di film sull’evoluzione delle scelte di voto nel Veneto.

Ma andiamo a vederla questa evoluzione del voto (pur nell’avvertenza che 3 tipi di voto diversi con  4 meccanismi elettorali differenti non sono perfettamente comparabili).

Risparmiando la sfilza di numeri nel corpo di questo pezzo (ma per chi vuole approfondire i link sono alla fine), si possono evidenziare alcuni dati inequivocabili:

  1. nelle Politiche (1996, 2001, 2006) i Partiti futuri costituenti il PD presentandosi divisi alla Camera hanno perso una consistente quota elettorale (3-4%) rispetto a quella ottenuta unitariamente al Senato, dato che si ripete omogeneamente in tutt’Italia;
  2. all’inizio del periodo (1995) le forze che poi hanno fatto parte dell’Ulivo prima e del PD poi contavano su oltre il 30% dei consensi arrivando al picco massimo del 33,8 (Senato 2001); nel 2010 il PD di poco ha superato il 20%;
  3. dal 1996 in poi i DS (prima PDS) sono sempre stati minoritari rispetto alla Margherita e ai suoi precursori;
  4. pur essendo, seppur di poco, aumentati gli aventi diritto al voto, nel 2010 il PD ha preso i voti che da solo prendeva il PDS nel 1995 (poco più di 450 mila) con una perdita secca di 300 mila voti, anche a voler considera i soli consensi dell’allora PPI, non volendovi aggiungere altri apporti;
  5. rilevante è il crollo elettorale del PDS che in un solo anno tra il 1995 e il 1996 passa dal 16,5%  all’11,8, perdendo quasi un terzo del proprio consenso, non recuperandolo più e attestandosi in seguito sempre attorno a quella percentuale.

Risulta quindi evidente quanto il progetto costituente del PD fosse necessario e sentito dagli elettori come fase nuova e di superamento dei vecchi partiti e delle loro liturgie, come momento centrale e “luogo politico” di sintesi per un soggetto nuovo. Risulta ancor più evidente come il progetto, così come declinato finora, non stia per niente funzionando essendosi ridotto ad una sorta di duopolio, mentre aveva la chiara ambizione di rappresentare ben altro e ben altri soggetti; inoltre viene da domandarsi come mai in questo duopolio de facto, il ruolo di guida è dato al socio che era di minoranza…

Per fare questo bisogna prendere in esame ulteriori situazioni, con casi concreti, protagonisti e protagonismi, vizi (politici) confessati e inconfessabili, pratiche poco ortodosse e convergenze sospette.

Materiale per la prossima puntata. 

Dati elettorali:

La prima parte è qui.

Il Nord continua ad aspettare

Nella vicenda di Bossi e della Lega non mi soffermo volutamente sulla questione personale e giudiziaria. Certo, i fatti riportati dalla stampa sono gravissimi: soldi del partito (e del finanziamento pubblico) destinati a coprire spese personali e familiari, coinvolgimento di organizzazioni mafiose e altri traffici loschissimi.

Distinguo la vicenda politica da quella giudiziaria.

Infatti, non mi accontento di constatare che un altro leader “avversario” è venuto meno a causa di inchieste giudiziarie. Voglio essere ancora più chiaro: è una sconfitta se il sistema politico non riesce ad auto-regolamentarsi e auto-controllarsi, eliminando comportamenti e personaggi inadeguati. È una sconfitta se la politica deve attendere le “fiamme gialle” per fare una riflessione politica al suo interno. E allora facciamola questa legge che regolamenti i partiti, i suoi bilanci e la sua democrazia.

La sconfitta della Lega Nord non deve essere sancita nei suoi bilanci o nelle inchieste giudiziarie. La sconfitta deve essere sancita dall’incapacità politica di dare risposte e soluzioni ad una parte di Paese che negli ultimi vent’anni gli aveva affidato un credito enorme. Perché l’onestà della classe politica non dovrebbe essere oggetto di dibattito: è un prerequisito necessario, ma non dobbiamo perdere di vista che ciò che ci si aspetta dalla politica sono risposte ai problemi.

Oggi, Marco Alfieri su La Stampa ricorda su quali basi politiche è nata la Lega e quanti siano ancora le domande inevase.

In questi vent’anni la Lega si è presentata come il “sindacato del territorio”. Dopo vent’anni sappiamo, non certo grazie ai magistrati, che questo sindacato ha fallito.

Si è dimostrato povero di risposte e di strumenti. Nella guida dei piccoli e grandi centri del Nord si è limitata all’ordinaria ammnistrazione, incapace di proporre un vero modello di amministrazione alternativa. Nella sfida del governo nazionale, invece, la sua azione è stata semplicemente inesistente. Sono stati proposti specchietti per le allodole propagandistici: il Sud agli albori, immigrazione nello sviluppo, federalismo oggi. Si è semplicemente capitalizzato la rabbia. I risultati sono lì da vedere.

E ora? Dall’“osservatorio di Varese” da anni ripetiamo al Pd e al centrosinistra che il Nord non è una landa desolata. Da anni ripetiamo che è necessario “attrezzarsi” politicamente avviando un lavoro politico intenso e costante: non basta un’assemblea nazionale ogni tanto per proporsi in maniera credibile.

Alcune modeste proposte le abbiamo anche fatte con Prossima Italia durante l’incontro di Varese, Giù al Nord: fisco, federalismo, impresa e partite IVA. Dico anche che noi possiamo anche fare milioni di proposte interessantissime ma finchè non ci sarà un’accresciuta sensibilità nella classe dirigente nazionale del Partito Democratico la nostra non potrà che essere una predicazione nel deserto.

Oggi abbiamo una grande occasione (l’ennesima degli ultimi anni): impegnare il PD e tutto il centrosinistra in una sfida vera ed aperta per il Nord. Anzitutto raccogliendo intorno a questo progetto i tanti che, a vari livelli, nella società civile e nella politica, conoscono e hanno elaborato proposta.

Poi, ci vuole la volontà e il coraggio. Che in politica sono ingredienti essenziali: elementi, però, che non possiamo chiedere ad altri.

Il Partito Democratico e l’abisso

E’ proprio dura la legge del contrappasso di cui scriveva ieri Barbara Spinelli. E’ proprio dura anche per il Partito Democratico, che dopo qualche anno passato a galleggiare sul berlusconismo scopre che il momento di fare i conti è arrivato. E le questioni etiche, che sembravano il fossato incolmabile tra Democratici di Sinistra e Margherita, non c’entrano proprio nulla. Berlusconi non c’è più, “oggi governano persone per bene”. Basta voli di Stato sospetti, basta nipoti di Mubarak, basta ministri impresentabili, basta Lega, anche.

Ora indignarsi non basta, ora è tutta politica economica, e si tocca la carne viva del Paese. Il governo Monti rimette in discussione le stesse basi sulle quali è stato costruito il Partito Democratico. Il governo Monti è il problema del Partito Democratico. La mancanza di una visione d’insieme che vada oltre alle singole proposte – di cui il sito dei democratici è pieno zeppo – e le “peripezie fatali” della legge del contrappasso, fanno sì che il dopo-Berlusconi sia potenzialmente la fase più critica della vita del PD. Decisioni da prendere, scelte da fare, in un tempo limitato. Ah, come era comodo galleggiare sullo strato di rifiuti che era la seconda Repubblica.

Veniamo ai fatti. Per chi se lo fosse perso, in provincia di Varese si sta testando la tenuta del Partito, sul campo di battaglia del mercato del lavoro. Lunedì, Stefano Fassina, responsabile economico del partito, si pronunciava così sulla proposta Ichino: «Nel Partito Democratico quella proposta non c’è. C’è invece la proposta del Partito Democratico che è diversa». Venerdì, invece, sarà a Gallarate lo stesso Ichino, introdotto così da Angelo Protasoni, assessore PD: «Come sappiamo, la “proposta Ichino” è una delle ipotesi su cui sta lavorando il governo Monti che sta faticosamente cercando un punto d’incontro fra le differenti posizioni ideali e i diversi interessi che attraversano le forze politiche, sociali ed economiche del nostro paese». Nel frattempo, oggi, Stefano Fassina è tornato sul tema.

Ma questo è solo l’inizio. La linea di frattura non si limita al solo mercato del lavoro, ma taglia in orizzontale il partito sull’intera visione dell’Italia e del mondo. Michele Emiliano, sindaco di Bari, usa il machete:

La nostra base ha obiettivi chiari, vuole essere tutelata dalle destre finanziarie europee, vuole garantiti i diritti alla casa, alla salute, al lavoro, alla formazione, alla democrazia. In questo momento il distacco tra il progetto politico del Pd ed il popolo italiano è molto grande. Abbiamo un pezzo di partito – l’ala bancaria e industriale di Letta: per capirci – che è un altro universo rispetto a chi, come me, è rappresentante di “quelli che non contano nulla”. Quell’altro è il Pd dei poteri forti (banche, giornali, assicurazioni): non ha nulla a che vedere con la nostra storia.

E al canto delle sirene di Monti e Casini, con Casini convinto che «questa formula di armistizio deve durare 4-5 anni», si preparano a rispondere organicamente anche Fassina, Orfini e Orlando:

Il punto è che non è pensabile che il Pd debba diventare una specie di Udc un pochino più di sinistra. Non è così. Non è più così. E per questo il nostro partito dovrà prepararsi alle elezioni contrapponendosi in modo chiaro al Ppe italiano, all’Udc più il Pdl, dimenticandosi ciò che è stato il ‘Lingotto’ e configurandosi sempre di più come fosse un grande Pse italiano: anche per portare a compimento il percorso che dovrà trasformare lo stesso Partito socialista europeo nella casa di tutti i democratici europei.

Cose di cui nel resto d’Europa si è cominciato a discutere una ventina di anni fa, proprio quando un imprenditore nato a Milano faceva la sua discesa in campo, congelando un intero Paese.

Lega e PdL: in Veneto è crollo dei consensi

Il Corriere Veneto, in un articolo di oggi, descrive i risultati di un sondaggio sulle intenzioni di voto commissionato all’istituto triestino Swg. I risultati sarebbero tanto sorprendenti che il capogruppo del Carroccio in Veneto, Federico Caner, sembra abbia imposto ai suoi il più stretto riserbo.

Rispetto alle regionali di un anno e mezzo fa, si legge sul Corriere Veneto, la Lega avrebbe perso ben undici punti, passando dal 35% al 24%. Non sta tanto meglio il Popolo della Libertà, crollato dal 25% al 17%. Se sommiamo i due dati passiamo dal 60% dei consensi al 41%: una perdita secca del 30%, un crollo a dir poco epocale.

Il Partito Democratico, sul versante opposto, sembra che sia riuscito nell’impresa storica di guardare al di fuori del proprio elettorato di riferimento, nell’impresa di saper comprendere le istanze di segmenti della popolazione fino a quel momento estranee e di saper racchiudere il tutto in un disegno coerente. La quota di consenso persa da Lega e PdL, stando ai dati, è confluita quasi per intero (a parte una sorta di “dispersione fisiologica”) nel Partito Democratico.

Ci piacerebbe poterla raccontare così. I dati, purtroppo, fanno registrare una crescita molto limitata del PD, che passa dal 20% al 22%. Lo stesso vale per SEL che, da poco più dell’1%, passa al 2%. La stessa UDC cresce, ma anch’essa di poco: dal 5% al 6%.

I risultati più interessanti riguardano l’IDV e il M5S. Il partito di Di Pietro cresce dal 5% al 7% e, allo stesso tempo, il M5S passa dal 2% al 7%. A ciò bisogna aggiungere la dimensione straordinaria di “indecisi e astenuti”, che sfiorano il 49%. Il filo che tiene insieme e rende coerente il tutto può essere solo uno: la crescente disaffezione, delusione, una (quasi) repulsione nei confronti della politica e, soprattutto, dei partiti. Divertente, inoltre, constatare il boom di un partito che si definisce movimento, che usa toni molto duri, che propone soluzioni semplici e immediate, che impone al suo interno codici di comportamento rigidi, guidato da un leader carismatico. Al posto dei gazebo, però, questa volta abbiamo i meetup.

Milan l’è un gran Taiwan

Quando il “brand” Milano fu presentato, non ci si risparmiò di certo in lodi ed autocelebrazioni: “Come le più importanti mete turistiche, anche Milano da oggi ha le sue magliette e i suoi gadget, con tanto di marchio ufficiale, registrato dal Comune” scrisse il “Corriere“. E l’assessore al Turismo Alessandro Morelli (Lega): «Finalmente come accade a New York, Madrid e in tutte le grandi capitali del mondo, i turisti che giungono a Milano potranno acquistare e portare via con sé un ricordo all’altezza dell’immagine della nostra città, capitale indiscussa della moda e del design». I prodotti avrebbero poi dovuto presentare “un alto standard qualitativo e una particolare attenzione ai tratti di creatività grafica e di design, agli aspetti innovativi dei materiali utilizzati, di processo di filiera, di attenzione all’ambiente e alle disabilità“. E soprattutto “nella fase di realizzazione, un ampio spazio doveva essere dato alla valorizzazione delle eccellenze produttive presenti sul territorio, con il coinvolgimento di aziende milanesi e nazionali“.
Peccato che a tutte queste belle parole non abbiano fatto seguito i fatti. Il consigliere PD Pierfrancesco Maran ha infatti scoperto che t-shirt, felpe, cappellini e perfino le palle per addobbare gli alberi di Natale, sono state realizzate con marchi di fabbrica dell’Estremo Oriente, Cina in particolare. E’ un buon modo per promuovere Milano? si domanda Maran. E chiede nello stesso tempo le dimissioni dell’assessore Morelli, il quale non si scompone: «Sono le leggi di mercato» dice.
Il suo partito però in passato aveva organizzato fiaccolate contro la comunità cinese: i cinesi quindi non vanno bene, ma i loro prodotti sì. Pare di essere di fronte proprio ad una bella ipocrisia. Difatti, Matteo Salvini, capogruppo del Carroccio in Comune, sulla vicenda è meno conciliante: «Ringraziamo il PD per l’attenzione alle nostre iniziative. La loro segnalazione non va ignorata. Si tratta ora di richiamare la società licenziataria e di imporre che i gadget siano prodotti in Lombardia». E chissà che ne penserebbero anche i Giovani Padani

P.S. anche per On the Nord