I modelli di integrazione secondo la Lega

Stefano Candiani, senatore della Lega Nord, ex sindaco di Tradate e ex segretario della Provincia di Varese, parla e scrive con cognizione di causa di modelli di integrazione:

Schermata 05-2456418 alle 00.21.58Si tratta di uno screenshot dal suo profilo Facebook, e il commento che accompagna le foto di alcune prostitute è:

Chi vuole eliminare la Legge Bossi-Fini ed eliminare il reato di immigrazione clandestina, vuole far passare questo come modello di integrazione.

Demagogia e populismo a parte, qualcuno spieghi a Candiani che la Legge Bossi – Fini è in vigore dal luglio del 2002. Forse le cose non sono così semplici come vorrebbe farci credere, e tra Legge Bossi – Fini e prostituzione non c’è un rapporto di causa-effetto. Forse, eh.

Che poi, se queste persone fossero clandestine, l’uscita dalla condizione di clandestinità non sarebbe a loro di aiuto, riconoscendo a loro maggiori diritti? Quindi, semmai, questo è il loro modello di integrazione.

Pisapia regala 30.000 euro a ogni famiglia rom: non è vero

Da questa mattina Facebook è intasato da questa cartolina:

rom_pisapia_30mila_euroE anche questa (a occhio si tratta di un articolo di Libero):

rom2_pisapia_milanoUna storia talmente incredibile da non sembrare vera. E, infatti, non è vera.

In una nota su Facebook il Comune di Milano smentisce la ricostruzione che sta rimbalzando sul social network:

Il “Piano Rom” fu varato nel 2008 dal ministro dell’Interno Maroni (Governo Berlusconi) e riguardava anche Napoli e Roma. Per Milano furono stanziati 13,6 milioni di euro. Nel provvedimento fu previsto anche che i prefetti diventassero “commissari” per la realizzazione degli interventi.

La Giunta Moratti spese 8 milioni. Come? Principalmente chiuse il campo di via Triboniano. Progettò la riqualificazione dei campi di via Chiesa Rossa e Martirano ma senza finire i lavori. Diede 15mila euro alle famiglie Rom che dichiaravano di voler tornare nei paesi di origine.

A Milano ovviamente i campi non sono mai scomparsi e molti Rom dopo un breve passaggio nei paesi di origine sono tornati in città. Il 16 novembre 2011 il Consiglio di Stato bocciò il “Piano Rom” della Giunta Moratti contestando il fatto che la presenza di Rom fosse definibile come emergenza mentre è una presenza ordinaria.

Il mese scorso l’attuale Giunta, realizzando un nuovo progetto, è riuscita a farsi restituire i soldi non utilizzati che erano stati bloccati dalla Prefettura e restituiti al Governo. Sono 5 milioni di euro di fondi statali, ovviamente vincolati ad azioni per la gestione della presenza di Rom.

È quindi priva di ogni fondamento l’ipotesi che siano dati 30mila euro a famiglia Rom. Il “Piano Rom” non prevede affatto di destinare ai Rom alcuna somma di denaro. Saranno messe in atto azioni concordate con Governo e Prefettura senza utilizzare soldi del Comune.

Le tappe, tutte finanziate dallo Stato:

  • Allontanamenti programmati dai campi abusivi e messa in sicurezza dei terreni per impedire la rioccupazione (esempio: Bacula).
  • Per evitare che siano occupate altre aree il Comune offre ospitalità nei centri di emergenza sociale, dormitori gestiti da Protezione civile, Terzo settore e controllati dalla Polizia locale (es: via Barzaghi). Nelle prossime settimane ne verrà aperto un secondo, in un’area abbandonata al degrado e oggi soggetta a occupazioni di Rom.
  • Il percorso di integrazione proposto dal “Piano Rom” prevede, a fronte dell’assistenza, l’obbligo a mandare i figli a scuola, seguire un percorso di formazione professionale, disponibilità a collaborare con i servizi sociali.

Di soldi a pioggia non se ne vedono, anzi: emerge una chiara progettualità.

La lunga notte dell’Italia 2050

Federico Mello, su Pubblico, racconta l’incredibile storia della prima candidatura al Parlamento di un esponente del Movimento 5 Stelle. Per vedere con i miei occhi, sono andato a cercare la pagina Facebook a sostegno della candidatura, sulla quale sono presenti diversi link a pagine di beppegrillo.it nelle quali Marino Mastrangeli – è questo il nome del candidato – esprime alcune idee che, verosimilmente, faranno parte del suo programma elettorale. Tra queste idee ce n’è una per contrastare «l’invasione di disperati» causata dall’aumento di popolazione in Africa. Orizzonte temporale: 2050. L’idea è stanziare dei fondi UE e ONU per «donare istruzione e informatizzazione a tutte le persone povere residenti nelle aree sovrappopolate del Mondo», un’idea – diciamo – non proprio molto originale e neppure troppo – diciamo – approfondita e concreta. Ma quel che più colpisce sono le parole, perché bisogna contrastare «l’invasione di disperati» («invasione», dove l’ho già sentita?),

Altrimenti gli scenari (anche in Italia) potrebbero essere apocalittici, tra cui il vertiginoso aumento delle epidemie (AIDS, malaria, tubercolosi,etc.), dei prezzi delle materie prime, della criminalità, del terrorismo, della prostituzione, dello sfruttamento dei lavoratori, del degrado ambientale, etc.

Un’Italia del 2050 con epidemie dilaganti che serpeggiano nei bassifondi delle città, e malati relegati ai margini, delle città. Criminalità in ogni angolo buio delle strade di periferia, cellule terroristiche che si annidano in tutti gli scantinati, prostituzione, violenza, fumi che si levano dai tombini, sirene che risuonano lontane e l’immancabile monorotaia posizionata a 50 metri di altezza, che sferraglia nella notte, rendendo impossibile il sonno dei bambini. Una lunga notte.

Tutto ciò causato dall’aumento di popolazione in Africa, popolazione che si riverserà sulle coste italiane, nel 2050. Davvero, la descrizione di scenari simili l’ho già sentita da qualche parte, ma non ricordo dove.

Il disoccupato dell’anno

La voce pacata di un altro grande imprenditore italiano si inserisce nella polemica tra Diego Della Valle e Sergio Marchionne sul futuro della Fiat e dell’economia nazionale. Alessandro Benetton, 48enne presidente del gruppo fondato da suo padre Luciano, un master in Business ad Harvard e una moglie super campionessa di sci (Deborah Compagnoni), è a Londra per presentare la nuova campagna internazionale del suo gruppo intitolata “Unemployee of the year”, disoccupato dell’anno.

Per chi se lo fosse persa, l’attacco di Della Valle alla “famiglia Fiat” è andato in scena lunedì sera, a “L’Infedele”, quando il presidente di Tod’s ha dichiarato:

La Famiglia Fiat dovrebbe mettere le mani in tasca, evitare di farsi dare dei dividendi come fanno tutti gli imprenditori seri quando le loro aziende hanno dei problemi. E investire quello che serve nell’azienda […] La Famiglia Agnelli torni a fare quello che ha sempre che ha sempre saputo fare meglio: sciate, veleggiate, belle passeggiate a golf. E lasci i problemi dell’Italia alle persone serie.

L’accusa, insomma, era quella di assenza di spirito e di capacità imprenditoriali, nella famiglia Agnelli, poco propensa al rischio e molto propensa allo svago, secondo una logica cara ai padroni del vapore nostrani. Ora si inserisce “la voce pacata di Alessandro Benetton”, scrive «Il Corriere», che proseguendo, nell’intervista, sottolinea l’importanza del rapporto con il mitico «territorio», per creare lavoro e per spiegare il dramma dei giovani italiani, dato che «c’è che per la prima volta i figli hanno davanti a sé un futuro più difficile dei padri»:

Per noi il rapporto con il territorio è essenziale. A volte facciamo meno di quello che vorremmo, però siamo un marchio italiano da 45 anni e non posso immaginare la nostra azienda se non come azienda italiana e veneta.

Ed ecco quindi la campagna “disoccupato del’anno”, che è effettivamente molto provocatoria, come lo furono molte altre campagne firmate Benetton, o forse di più. Perché in questo caso è ancor più provocatorio che sia la voce pacata di Alessandro Benetton, ad annunciarla. Il motivo lo spiega bene Gabrio Casati in «Luigini contro Contadini», che citiamo:

Sulla scia dei pullover, United Colors of Benetton raggiunse un livello di sviluppo mondiale che era conosciuto solo dalle grandi case della moda tradizionale e di lusso, imponendo anche una sostanziale democratizzazione dei canoni del gusto e della moda. Da allora a oggi, il profilo del Gruppo ha attraversato profonde trasformazioni. […] Attorno alla Edizione Holding srl, la finanziaria della famiglia Benetton, si ritrovano molte delle attività privatizzate a più riprese dallo Stato nel corso degli ultimi vent’anni. A esclusione dei settori dell’energia (in cui tuttavia lo Stato rimane il detentore finale delle partecipazioni di ENEL ed ENI) e delle telecomunicazioni (il gruppo Benetton è uscito recentemente da Telco, la scatola che «controlla» Telecom Italia), nelle partecipazioni di Edizioni Holding si ritrovano molte parti della vecchia economia di Stato. Edizione, direttamente o per tramite di altre società, controlla o ha rilevanti interessi in autostrade (Atlantia Spa), aeroporti (Aeroporti di Roma, Sagat Torino e Aeroporto di Firenze), ristorazione (Autogrill), trasporto ferroviario (Grandi Stazioni). Quasi tutti mercati regolamentati, in cui il margine operativo lordo dell’impresa è definito, in ultima istanza, dall’atteggiamento del Legislatore. La traiettoria del gruppo Benetton, per come è stata negli ultimi trent’anni, sembra chiara: ridurre progressivamente la quota di profitti generati in un mercato internazionalizzato, aperto e concorrenziale, per aumentare quella derivante da servizi soggetti ad autorizzazione/concessione/regolamentazione, ovvero in cui è lo Stato a fissare i prezzi e la remunerazione del capitale.

Questo aiuta a capire perché la campagna, questa volta, è paradossalmente troppo provocatoria. Perché sono queste le cose da cambiare, con quella famosa doppia mossa «liberale dentro al sistema politico ed economico italiano, e profondamente democratica ed egualitaria nello schema politico europeo ed internazionale»:

In Italia, a dirla tutta, Stato e mercato si sono fin troppo confusi, per attardarsi ancora a riconoscerlo, seguendo linee e filiere in cui la politica e il mondo dell’impresa si scambiavano continuamente di posto, senza che ci fosse né regolazione, né qualità, nell’uno o nell’altro.

Non si può far finta di non vedere che di fronte alle spinte liberistiche degli ultimi trent’anni, in Italia, le uniche cose che hanno saputo resistere – anzi, sono diventate più forti – sono le corporazioni, le rendite di posizione, le clientele. Tutte cose che, messe insieme, fanno una cosa che si chiama debito e che in qualche modo ci dovrebbe riguardare.

C’è bisogno di questo, non della retorica del «per la prima volta i figli hanno davanti a sé un futuro più difficile dei padri», per non dover più premiare i «disoccupati dell’anno».

Il «saper fare» tutto italiano, su scala globale

Come abbiamo fatto diverse altre volte, recentemente, On the Nord nei giorni scorsi si è soffermato sul futuro artigiano che potrebbe essere un tratto distintivo dell’Italia che verrà, solo se sapremo dare nuovamente valore a mestieri tipici della nostra tradizione, collocandoli all’interno dei flussi internazionali di ricchezza. Per capire meglio di cosa stiamo parlando, abbiamo intervistato il professore Stefano Micelli (che ha da poco inaugurato il suo blog su Linkiesta), dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, autore del testo da cui tutte le nostre riflessioni muovono, Futuro Artigiano:

E noi ci fidiamo, ma fino a un certo punto. Per questo motivo abbiamo cercato le uova, dove la componente artigianale dell’impresa è storicamente diffusa nella società. Siamo stati tra l’hinterland milanese e Lecco, per capirci, per raccontare le storie di chi plasma ancora il metallo e di chi vende orecchie da elfo (avete capito bene) in tutto il mondo, producendole manualmente nel suo laboratorio.

A plasmare il metallo ci pensa il Laboratorio Lopane, di Cormano. Hanno anche un blog, e questo è già un piccolo indizio. La loro attività mi ha fatto tornare in mente due esempi citati da Micelli, di makers americani, dediti alla riparazione e al restauro delle motociclette e alla creazione di automobili su misura. La logica del mio ragionamento è del tutto distorta, e forse c’è un problema, perché dovrebbe muoversi nel senso opposto, partendo dall’esperienza a me più vicina, sia a livello geografico che culturale, per poi spaziare oltreoceano. Anche perché, diciamolo senza problemi, in alcuni casi la distanza è evidente. Al contrario, sembra che debbano essere i makers americani a raccontarci come l’artigianato possa percorrere strade non ancora battute.

Attraversato il cuore della Brianza, le orecchie da elfo ci portano a pochi chilometri a sud di Lecco, a Viganò, dove visitiamo il laboratorio di Neraluna che, come vi dicevo, produce manualmente orecchie da elfo e altri prodotti che hanno a che fare con il mondo fantasy e dei giochi di ruolo. A un primo impatto, il tutto sembra assolutamente folle, perché chi mai può aver pensato di mantenersi attraverso la produzione di manufatti estremamente di nicchia. L’entrata in gioco di due fattori, il web e l’inglese, apre però la produzione al mercato internazionale, e così si scopre che la nicchia è una nicchia globale, perché si gioca di ruolo tanto in Italia quanto in Sudafrica, e il gioco, appunto, è fatto.

Seguiteci, nei prossimi giorni.

Vi ricordate l’orda?

“Anche se io spero che questo momento non debba mai venire, questo problema potrebbe diventare talmente enorme che dovremo porci il problema di usare anche le armi”.

Roberto Castelli, aprile 2011

Castelli, nella dichiarazione resa poco più di un anno fa, faceva riferimento agli sbarchi sulle coste italiane Primavera araba in corso. Come abbiamo già avuto modo di raccontare, si trattava di un dato straordinario solo (solo!) perché in controtendenza, rispetto alla dinamica decrescente degli sbarchi.

Il trend decrescente è stato confermato nel 2012:

Gabriele Del Grande, giornalista e fondatore dell’Osservatorio Fortress Europe, che si occupa di registrare ogni sbarco di migranti avvenuto sulle coste europee dal 1988, non ha dubbi: “Da gennaio a fine maggio 2012 sono arrivate non più di mille persone, come ha comunicato di recente il ministro dell’Interno Cancellieri”, spiega Del Grande, “stiamo parlando di all’incirca 20 barconi: numeri assolutamente trascurabili rispetto a quelli di un anno fa, quando nello stesso periodo erano sbarcate 30mila persone”.

Del Grande parla di una «riduzione drastica ma definitiva», dichiarazione che sembra confermare – ancora una volta – il trend negativo di cui parlavamo, che subisce delle correzioni «fisiologiche» in momenti di particolare criticità, come l’anno scorso. Il mare, negli ultimi due mesi, è stato anche in buone condizioni.

Ma i movimenti di popoli non si fermano comunque, e infatti Del Grande ritiene che possano riscuotere maggiore successo nuove (si fa per dire) forme di migrazioni, via terra, ad esempio attraverso la Turchia.

Il dato drammatico che rimane – mentre in Italia il dibattito si sviluppava sull’onda demagogica ed elettorale, l’onda della paura – ci racconta che «in 24 anni di viaggi della speranza hanno perso la vita 18.278 persone (di cui 2.352 nel 2011)». Forse era questa la «paura» più concreta, e prossima, ma ce ne siamo dimenticati, in questi 24 anni. Scusate il ritardo.

Se c’è un futuro, sarà artigiano

Leggo solo ora un interessante articolo di Nicola Porro, pubblicato su Il Giornale sabato. Porro prende come riferimento la capitalizzazione di alcune imprese italiane. Nella grafica, in particolare, ci si concentra su queste:

Le conclusioni del giornalista – partendo dal presupposto che la capitalizzazione in Borsa non dica comunque tutto del valore dell’azienda – sono le seguenti:

  1. Come sottolinea l’ Economist le grandi società con molti piccoli azionisti diffusi sul mercato non vivono un momento di gloria oggi. Si preferisce una via italiana alle private company. E cioè meglio un padrone di un manager.
  2. Le aziende di maggiore successo sul mercato azionario sono quelle che riescono più facilmente a sganciarsi dall’Italia. Abbiamo fatto solo tre esempi, ma ne potremmo fare centinaia sulla forza delle nostre imprese che vivono di esportazioni. Nel nostro piccolo club inoltre il timone di comando è solidamente in mano ai proprietari che hanno maggioranze forti delle loro società quotate.
  3. Il fatto che Della Valle valga più di Profumo, che Garavoglia doppi Pagliaro e che Ferragamo guardi dall’alto Orsi, è una delle ragioni per le quali assistiamo a un certo rimescolamento negli assetti di potere del capitalismo italiano. Prima o poi le azioni si contano per il loro peso effettivo.

Di sicuro interesse la terza osservazione, che fa pensare a nuovi equilibri del capitalismo italiano. Sulle prime due, invece, forse si potrebbe discutere di più. Porro sostiene che il segreto del successo di alcune imprese rispetto ad altre stia nella gestione diretta delle stesse da parte della proprietà, piuttosto che da parte di un manager, tanto che il titolo dell’articolo è: “Ce lo dice la crisi: aziende famigliari meglio dei colossi”. Può essere, ma a mio modesto parere, la reale linea di demarcazione – più che nel rapporto tra dirigenza e proprietà – bisogna cercarla in qualcosa di maggiormente complesso. E’ quella cosa che il professore Stefano Micelli descrive nel suo testo Futuro ArtigianoSi tratta di questo, della capacità di essere artigiani del nuovo millennio, capaci di inserirsi nei flussi internazionali di valore e di ricchezza, forte di quelle capacità non esportabili che derivano dalla lunga tradizione di mestieri e arti che contraddistingue l’Italia.

“Il lavoro artigiano, insomma, è un enzima che completa e arricchisce i processi standardizzati tipici dell’industria“, perché “la conoscenza dell’artigiano, nella sua capacità di essere cultura, creatività e personalizzazione, è complementare alla conoscenza del mondo industriale, non antagonista”.

Insomma, può darsi che il successo internazionale di un’azienda non sia legato al fatto che sia gestita dalla proprietà o da un manager, ma al capitale umano necessario per sfondare oltre i confini italiani, al costante contatto con la materia prima, con l’oggetto in lavorazione, con il prodotto finito. Contatto fisico.

E’ una delle idee che – pur non volendone scrivere l’ennesimo e tardivo epitaffio – ci ha lasciato Steve Jobs: la quasi maniacale ricerca della perfezione nel rapporto tra l’oggetto e il futuro possessore. La leggenda vuole che Jobs abbia fatto sostituire il jack delle cuffie dell’iPod appena prima della sua uscita: non gli piaceva il click, il suono fatto dal connettore nel momento in cui viene introdotto nella sua sede. Si crea così un rapporto quasi intimo, d’affetto tra oggetto e possessore, che quindi restituisce agli oggetti e alle cose una loro dimensione. Se c’è un iPhone nelle vicinanze prima o poi lo sapremo, per via della banalissima suoneria.

La riscoperta del lavoro artigiano, del contatto con il prodotto è stata al centro di numerose operazioni di marketing. Nel video qui sotto la Nike ci spiega come vengono prodotte le scarpe di Cristiano Ronaldo, Cesc Fabregas e Wayne Rooney, tre campioni del calcio. Micelli riconduce questa operazione di marketing al mito di Efesto, dio del fuoco, della tecnologia, dell’ingegneria, della scultura e della metallurgia, ma allo stesso tempo brutto e di cattivo carattere, impegnato nella sua fucina nella produzione di armi “mitiche”, come l’armatura e lo scudo di Achille. “L’artigiano – scrive Micelli – è al servizio dell’eroe“:

Luxottica, Campari, Ferragamo e Tod’s avranno questo in comune? Può darsi, perché questo è il capitale che l’Italia possiede già, da secoli, sul quale deve investire e che deve essere fatto valere inserendosi nelle catene globali. C’è una buona dose di rischio, è vero, ma non è con i soli musei delle arti e dei mestieri che ne usciremo. «La tradizione serve a tramandare il fuoco, non a venerare le ceneri».

Quel misto tra Bossi e Bossi

Da tempo abbozziamo paragoni tra la Lega a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. C’è una sottile linea rossa – o, forse, verde – che li collega, la stessa linea che porta all’astensionismo, che ha come parola d’ordine “partitocrazia”. Una frase pronunciata da Bossi durante un comizio, nel 1995, mi ronza nella testa da diverso tempo, quasi fosse la chiave del successo leghista e – potenzialmente – del successo grillino. E’ quella frase lì, delle baionette in canna, con le quali la Lega avanzerà, per snidare, anche al Sud – badate bene: “anche al Sud” – la partitocrazia. Le baionette, perché si è pronti a sfidare il nemico corpo a corpo. Un’organizzazione quasi militaresca. L’avanzata. E infine la partitocrazia, da snidare, al Sud ma anche al Nord, ovunque sia nascosta. Diciassette anni dopo, a Milano, Beppe Grillo chiedeva – azzardando un paragone storico del tutto fuori luogo – “una piccola Norimberga per i partiti”, per lo svolgimento della quale “si tirerà a sorte una giuria di cittadini incensurati e determineremo come farci ridare tutti i soldi che hanno rubato e come indirizzarli a qualche lavoro sociale”. Li snideremo sommariamente e anche con un po’ di violenza, in sostanza.

Ci sono altri punti di somiglianza, oltre al comune nemico di Lega old style e M5S. Provo a elencarne qualcuno:

  • Il presidio, il controllo dello spazio. Se la Lega piantava gazebo e scriveva sui muri, proponendosi di occupare il territorio, il M5S cerca di controllare un altro spazio: internet. Non dico che ci riesca, ma ci prova. Vi sarà certamente capitato di leggere chilometri di commenti a post o articoli nei quali si critica Beppe Grillo, per difendere il “movimento”. Ecco.
  • Inoltre, mantengono un forte legame, quasi esclusivo, con il loro spazio d’azione. “Le proposte sono sul blog”, e solo lì: a voce non le diciamo (come mostrato ieri da Servizio Pubblico). Ciò vuol dire che se vuoi discuterne dovrai andare sul blog, commentare ed essere affossato. Perché se il problema è la riforma del lavoro, va bene, ma c’è altro. Allo stesso modo, la Lega ha la capacità di imporre la propria agenda, anche quando è in difficoltà, e di svicolare quando potrebbe essere in pericolo: mentre il Partito Democratico si lacerava sull’articolo 18, la Lega non ha detto una parola. Agiscono esclusivamente dove hanno controllo totale dei mezzi a disposizione, perché c’è sempre altro.
  • Ovviamente siamo, in entrambi i casi, in presenza di un leader carismatico, con grandi capacità oratorie.
  • C’è uno strano rapporto con i partiti: essendo il loro principale nemico, dipingono se stessi non come “partito”, ma come “movimento”, dove “ognuno conta uno”. Tuttora esponenti di primo livello della Lega si ostinano a parlare di “movimento”, e per quanto riguarda i grillini, beh, non penso ci sia tempo da perdere. Ma l’aspetto curioso è che alla retorica del movimento si affianca una gestione interna leninista e un forte spirito di appartenenza: il movimento è sacro. Quanti espulsi dalla Lega si possono contare? Solo tra il 1988 e il 1995, stando alla ricostruzione della Lega, troviamo: Gremmo (giugno 1989), Rocchetta, Marin e Aliprandi (settembre 1994). E in questi tempi si andava ancora tutti d’accordo, c’era poca roba da spartire. La stessa cosa sta succedendo all’interno del M5S: ci si aspetta che un movimento sia “liquido”, ma non si possono organizzare incontri in maniera autonoma, secondo Beppe Grillo, che ha definito un incontro autoconvocato un paio di mesi fa a Rimini come “degno della migliore partitocrazia”. Successivamente è stato espulso dal “movimento” Valentino Tavolazzi, di Ferrara, e non si è ancora capito il perché.
  • Si dichiarano “né di destra né di sinistra”.
  • Il costante attacco ai giornalisti, “servi del potere” e parte del sistema da combattere – e qui si torna al web.
  • A entrambi non dispiacerebbe l’uscita dall’Euro e il ritorno alla Lira, con tutte le sue svalutazioni. Ora, qui il discorso si fa molto complicato, ma con una battuta vorrei dire che sembrano preferire una visione conservativa, museale e basata su un approccio al ribasso, piuttosto che la sfida di modificare quest’Europa.

A questo punto è possibile capire il perché di alcune uscite da parte di alcuni esponenti del centrosinistra – anzi: del Partito Democratico – e possiamo prevederne altre. Quindi, cos’ha detto e cosa dirà il Partito Democratico?

  • Dirà che il M5S è una costola della sinistra.
  • Dirà che Grillo è pazzo, lo prenderà in giro, cercherà di sbeffeggiarlo (“un misto tra Gabibbo e Bossi”, ha già sentenziato D’Alema).
  • A un certo punto tirerà in mezzo la Costituzione, perché Grillo è eversivo. E lo si combatterà sul terreno legalistico, invece che su quello politico. (Forse perché non si hanno risposte politiche?);
  • Accuserà Grillo di far vincere qualcun altro, di fare gli interessi di qualcun altro. Ricordate il Piemonte?
  • Cercherà, infine, di allearsi con Grillo, ricevendo in cambio un sonoro “vaffa”, da Grillo e dai suoi elettori. Suoi del Partito Democratico.

In sintesi, la dirigenza del Partito Democratico non capirà e non saprà interpretare – proprio come nei primi anni ’90 – i cambiamenti e non saprà capire i propri errori. E allo stesso modo, in ritardo e con fare goffo, cercherà un dialogo e un’alleanza “tra dirigenti”, non capendo che non bisogna rivolgersi né a Grillo né a Bossi, né, tantomeno, ai grillini e ai leghisti, ma bisogna prima di tutto non negare le problematiche che sollevano e, perciò, rivolgersi ai motivi. Essere conseguenti, infine, assumendo dei comportamenti appropriati. Facendo da esempio, sì.

Per non cadere nuovamente in questo errore, c’è bisogno di un forte ricambio della classe dirigente del Partito Democratico. Punto. E forse saremo ancora in tempo.

Quel mito delle origini

Pippo Civati, su Europa:

«Ho denunciato sempre con forza, e davanti agli elettori leghisti, il drammatico allontanamento della Lega dalle sue motivazioni originarie. Se ricominceranno da lì, potranno esistere ancora». Bersani si appella ancora una volta alla Lega delle origini, al suo elettorato, come già fece lo scorso anno.
Vale la pena di ricordare però che «la Lega delle origini» è un mito che – anche se adottato in modo strumentale, come sembra voler fare il segretario nazionale del Pd – va quantomeno decostruito.
Perché «la Lega delle origini» ha gli stessi leader di oggi. Anche quelli che ora prendono le distanze dal caro leader. E gridano allo scandalo.
Perché gli stessi giovani della «Lega delle origini », ora maturi amministratori, sono diventati più credibili, recentemente, proprio perché hanno abbandonato certi toni inaccettabili che frequentavano con gran gusto, e hanno scelto il profilo di governo (penso ai veneti, soprattutto).
Perché «la Lega delle origini» è proprio quella che si è messa alla ricerca delle «origini», che ha scelto la «società stretta» di cui parlava Leopardi, che ha dato prova di razzismo (qualcuno dice light, come se il razzismo potesse esserlo) per anni e ha fallito tutti gli obiettivi che si era prefissa.
Perché «la Lega delle origini» è passata dal cappio e dalla difesa della legalità come punto di partenza di qualsiasi scelta politica all’alleanza che ha consentito a Berlusconi (e nella “sua” regione, la Lombardia, a Formigoni) di governare per un ventennio. E la questione politica della legalità, per quanto mi riguarda, non si pone con il Trota oggi, ma con la scelta di allearsi con il Pdl tanti anni fa.
Perché «la Lega delle origini» ha contrastato l’Europa, ha impoverito il dibattito politico di un paese in cui per altro non si riconosceva, ha cavalcato la paura, ha pensato (e tentato) di dividere l’Italia.
Perché ha tenuto in una mano l’ampolla del grande fiume, e nell’altra la privatizzazione dell’acqua.
Perché ha insistito sul tema dell’identità, nella sua versione peggiore, ispirata a un localismo esasperato e, spesso, autarchico.
Perché ha fatto il movimento di lotta e quello di governo. Anzi, di sotto-lotta (gloriosa la battaglia delle quote latte) e di sotto-governo, come possiamo apprezzare leggendo le cronache del dibattito che si è aperto all’interno del movimento dei puri che, alle origini, ce l’avevano duro.
Perché ha capito, certamente, il rancore del Nord, perché ha letto cose che da Roma non si percepivano (e ancora non si percepiscono, questo è il vero problema), senza offrire alcuna soluzione credibile.
Perché ha posto la questione di uno Stato più diffuso, ma è finita con i ministeri di Monza (lontani parenti del parlamento padano, che invece era una delle manifestazioni più limpide proprio della «Lega delle origini»).
Piuttosto che confidare nel ritorno di una «Lega delle origini » e della sua sopravvivenza, fossi in Bersani lancerei una grande sfida al Nord, come ho cercato di argomentare più volte, da ultimo in direzione nazionale (in cui mi sono sentito un po’ un marziano, perché all’ordine del giorno c’era l’ispano-tedesco, non il Lombardo-Veneto).
A Varese, a fine gennaio, abbiamo provato a lanciare un segnale: come interpretare la questione settentrionale (che c’è ancora, anche perché in questi anni è stata solo blandita e brandita, ma alla fine frustrata), come dare voce ai «contadini» contro i «luigini» (per dirla con il titolo di un bel libro di Gabrio Casati) e cioè a chi lavora e produce ricchezza, come ridare senso a una politica che sia territoriale, ma in senso moderno, non mitologico.
La Lega sopravviverà: si sceglierà tra il modello Ba-Varese di Maroni, tra i Bossiani irriducibili e le variabili venete.
Se non dovesse sopravvivere, me ne farei una ragione senza troppi patemi.
La questione, però, è un’altra: tornerà il Nord al centro del dibattito politico, in modo più compiuto e concreto? Sarebbe ora. E sarebbe ora di rivolgersi all’elettorato leghista non in modo strumentale, ma in modo diretto. Dicendo cosa abbiamo intenzione di fare noi. Per il futuro dell’Italia, non per le origini del leghismo.

Perché i Veneti stanno tornando poveri

La Lega Nord implode, i problemi che l’hanno generata restano, come ha scritto Andrea in un suo recente post. Perchè, nonostante anni e anni di partecipazione leghista al governo nazionale, essi non sono stati risolti.

I problemi, però, non stanno solo a Roma: anche a livello locale la gestione forza-leghista è stata caratterizzata da una incapacità di visione sconvolgente. Una classe politica più preoccupata di fare “grandi affari: edilizia, aeroporti, reti, autostrade, banche e fondazioni bancarie” che a pensare al benessere del territorio e a dargli un futuro.

Per questo consiglio di leggere Mala Gestio- Perchè i Veneti stanno tornando poveri” di Massimo Malvestio (ed. Marsilio), una raccolta commentata dei suoi articoli pubblicati su nordesteuropa.it e ilGazzettino, articoli che ripercorrono le scelte scellerate delle amministrazioni venete dell’ultimo ventennio.

Viene descritta una Regione lasciata a se stessa, un territorio devestato da un’urbanizzazione selvaggia, senza una programmazione coerente, senza alcun disegno.

Come scrive l’autore nella premessa:

il vero filo conduttore di questo libro è il contingente che diventa eterno, le cose insensate che non cambiano mai, gli amministratori incompetenti che rimangono sempre al loro posto, a dispetto di tutto e di tutti. Fungibili a qualsiasi disegno perché, in realtà, non c’è nessun disegno.

Anzi è proprio l’assenza di qualsiasi disegno a legittimarli.
La gestione del contingente, il piccolo interesse quotidiano, la sapiente organizzazione della comunicazione, l’omologazione del pensiero in slogan: sono queste le caratteristiche che consentono la perpetuazione di quella parte di classe dirigente che vive di inutili gestioni pubbliche. Quel che conta non è il fine ma il mezzo: la gestione pubblica è il mezzo per garantire i privilegi.

Perchè la mala gestione della cosa pubblica, non va combattuta solo a Roma o nel Mezzogiorno, va combattuta ovunque, anche qui: onthenord (dato che pure ci abito inthenord).