La voce pacata di un altro grande imprenditore italiano si inserisce nella polemica tra Diego Della Valle e Sergio Marchionne sul futuro della Fiat e dell’economia nazionale. Alessandro Benetton, 48enne presidente del gruppo fondato da suo padre Luciano, un master in Business ad Harvard e una moglie super campionessa di sci (Deborah Compagnoni), è a Londra per presentare la nuova campagna internazionale del suo gruppo intitolata “Unemployee of the year”, disoccupato dell’anno.
Per chi se lo fosse persa, l’attacco di Della Valle alla “famiglia Fiat” è andato in scena lunedì sera, a “L’Infedele”, quando il presidente di Tod’s ha dichiarato:
La Famiglia Fiat dovrebbe mettere le mani in tasca, evitare di farsi dare dei dividendi come fanno tutti gli imprenditori seri quando le loro aziende hanno dei problemi. E investire quello che serve nell’azienda […] La Famiglia Agnelli torni a fare quello che ha sempre che ha sempre saputo fare meglio: sciate, veleggiate, belle passeggiate a golf. E lasci i problemi dell’Italia alle persone serie.
L’accusa, insomma, era quella di assenza di spirito e di capacità imprenditoriali, nella famiglia Agnelli, poco propensa al rischio e molto propensa allo svago, secondo una logica cara ai padroni del vapore nostrani. Ora si inserisce “la voce pacata di Alessandro Benetton”, scrive «Il Corriere», che proseguendo, nell’intervista, sottolinea l’importanza del rapporto con il mitico «territorio», per creare lavoro e per spiegare il dramma dei giovani italiani, dato che «c’è che per la prima volta i figli hanno davanti a sé un futuro più difficile dei padri»:
Per noi il rapporto con il territorio è essenziale. A volte facciamo meno di quello che vorremmo, però siamo un marchio italiano da 45 anni e non posso immaginare la nostra azienda se non come azienda italiana e veneta.
Ed ecco quindi la campagna “disoccupato del’anno”, che è effettivamente molto provocatoria, come lo furono molte altre campagne firmate Benetton, o forse di più. Perché in questo caso è ancor più provocatorio che sia la voce pacata di Alessandro Benetton, ad annunciarla. Il motivo lo spiega bene Gabrio Casati in «Luigini contro Contadini», che citiamo:
Sulla scia dei pullover, United Colors of Benetton raggiunse un livello di sviluppo mondiale che era conosciuto solo dalle grandi case della moda tradizionale e di lusso, imponendo anche una sostanziale democratizzazione dei canoni del gusto e della moda. Da allora a oggi, il profilo del Gruppo ha attraversato profonde trasformazioni. […] Attorno alla Edizione Holding srl, la finanziaria della famiglia Benetton, si ritrovano molte delle attività privatizzate a più riprese dallo Stato nel corso degli ultimi vent’anni. A esclusione dei settori dell’energia (in cui tuttavia lo Stato rimane il detentore finale delle partecipazioni di ENEL ed ENI) e delle telecomunicazioni (il gruppo Benetton è uscito recentemente da Telco, la scatola che «controlla» Telecom Italia), nelle partecipazioni di Edizioni Holding si ritrovano molte parti della vecchia economia di Stato. Edizione, direttamente o per tramite di altre società, controlla o ha rilevanti interessi in autostrade (Atlantia Spa), aeroporti (Aeroporti di Roma, Sagat Torino e Aeroporto di Firenze), ristorazione (Autogrill), trasporto ferroviario (Grandi Stazioni). Quasi tutti mercati regolamentati, in cui il margine operativo lordo dell’impresa è definito, in ultima istanza, dall’atteggiamento del Legislatore. La traiettoria del gruppo Benetton, per come è stata negli ultimi trent’anni, sembra chiara: ridurre progressivamente la quota di profitti generati in un mercato internazionalizzato, aperto e concorrenziale, per aumentare quella derivante da servizi soggetti ad autorizzazione/concessione/regolamentazione, ovvero in cui è lo Stato a fissare i prezzi e la remunerazione del capitale.
Questo aiuta a capire perché la campagna, questa volta, è paradossalmente troppo provocatoria. Perché sono queste le cose da cambiare, con quella famosa doppia mossa «liberale dentro al sistema politico ed economico italiano, e profondamente democratica ed egualitaria nello schema politico europeo ed internazionale»:
In Italia, a dirla tutta, Stato e mercato si sono fin troppo confusi, per attardarsi ancora a riconoscerlo, seguendo linee e filiere in cui la politica e il mondo dell’impresa si scambiavano continuamente di posto, senza che ci fosse né regolazione, né qualità, nell’uno o nell’altro.
Non si può far finta di non vedere che di fronte alle spinte liberistiche degli ultimi trent’anni, in Italia, le uniche cose che hanno saputo resistere – anzi, sono diventate più forti – sono le corporazioni, le rendite di posizione, le clientele. Tutte cose che, messe insieme, fanno una cosa che si chiama debito e che in qualche modo ci dovrebbe riguardare.
C’è bisogno di questo, non della retorica del «per la prima volta i figli hanno davanti a sé un futuro più difficile dei padri», per non dover più premiare i «disoccupati dell’anno».