Ci piace il lavoro, non la rendita

Nota iniziale: il seguente è un post un po’ sconclusionato, che mette assieme alcuni dubbi e qualche riflessione, probabilmente sbagliata.

Durante il fine settimana ha tenuto banco la notizia del paper di Bankitalia sui patrimoni detenuti dagli italiani. Il patrimonio dei 10 italiani più ricchi corrisponde al patrimonio dei 3 milioni di italiani più poveri: senza dubbio è stato questo il dato che ha maggiormente colpito chi non è tra i 10 italiani più ricchi. Mi sembra più interessante, però, guardare al trend e riflettere sul trend, perché altrimenti rischiamo di scatenare una sorta di deleteria caccia alle streghe, causando la fuga immediata dei capitali dei 10 paperoni italiani, e di molti altri.

Tra il 1965 e il 2010, inoltre, il rapporto tra ricchezza e Pil è praticamente raddoppiato (da 2,7 a 5,6), fatto che prova come il Paese in questi 50 anni abbia incrementato la ricchezza più della produzione. La ricchezza che ci viene dal passato, insomma, è sempre più rilevante rispetto a quella che è possibile procurarsi giorno dopo dopo giorno con l’attività lavorativa e d’impresa.

E’ questo il rapporto da indagare, che determina il trend: il rapporto tra lavoro e denaro, laddove il denaro corrisponde sempre meno alla remunerazione del lavoro, e sempre più alla remunerazione del non lavoro. Alla rendita.

Settimana scorsa ho assistito a un interessante dibattito, durante il quale Massimo Amato, docente dell’Università Bocconi, ha relazionato sul ruolo e sulle funzioni della moneta. Il primo dilemma da risolvere è: la moneta è una merce o è un’unità di conto e di scambio, uno strumento quindi privo di valore reale? Ovviamente non sono nella posizione di poter dare una risposta, ma uno degli spunti di riflessione è dato dalla constatazione che la somma del valore di tutti i beni mondiali è inferiore al valore di tutta la moneta circolante. La moneta in circolazione non corrisponde al valore dei beni acquistabili.

Nella loro forma fino al 1971, ciascuna valuta nazionale non rappresentava altro che una determinata quantità di oro:

L’oro era il denaro “vero” che solo un processo storico millenario aveva potuto accreditare come tale. Per fungere da comune denominatore di tutti i beni, il denaro non può che essere una merce, ma di una caratteristica tutta particolare: essere richiesta come intermediario di tutti gli scambi. Il suo valore deve essere pertanto universalmente riconosciuto e stabile nel tempo.

Il surplus di carta, sia rispetto alle merci che rispetto all’oro, ha un valore in sé? Attualmente la risposta credo che sia sì, nonostante questo surplus non possa essere, teoricamente, scambiato.

Amato, in seguito, ha rispolverato un’idea di Keynes, cioè la creazione di una moneta internazionale, che sia bene comune dell’umanità, di tutti e di nessuno allo stesso tempo, necessaria per gli scambi internazionali e che sparisca una volta che abbia portato a termine la sua funzione di strumento di scambio. Una moneta cooperativa, che faccia pagare sia i surplus che i deficit, due facce della stessa medaglia (do you remember la bilancia commerciale intra-UE dove sono radicati i problemi dell’Eurozona?). Una moneta che risponda anche al principio di sussidiarietà, prendendo atto che sono sempre più le monete locali in circolazione. Anche per l’Unione Europea si potrebbe pensare a una moneta che non sia merce, che non serva a finanziarsi, ma che serva esclusivamente per rendere più fluidi gli scambi commerciali (forse una sorta di ECU da far valere anche a livello commerciale?).

In conclusione, la ricostruzione del rapporto tra denaro e lavoro è una sfida affascinante e di alto profilo, che potrebbe essere centrale nei prossimi anni. Oltre al livello monetario esiste anche una leva fiscale – e qui torniamo al discorso dei paperoni italiani – per muoverci in questa direzione, per tornare a riconoscere valore al reddito da lavoro e non alla rendita, al lavoro che crea ricchezza e non alla moneta che crea altra moneta.