I panni in Arno

Nel giorno in cui entra in vigore il test di lingua per gli immigrati che richiedono il permesso di soggiorno per lungo periodo, una persona di media intelligenza immagina che il governo abbia anche previsto dei luoghi in cui gli stranieri possano sciacquare i propri panni in Arno. E che dunque abbia finanziato questi corsi di italiano, magari appoggiandosi alla scuola pubblica o alle associazioni di volontariato già operanti nel settore. E che abbia magari firmato un protocollo con le aziende in cui tali immigrati lavorano, prevedendo il riconoscimento delle ore di permesso necessarie a frequentare le lezioni. La risposta, naturalmente, è no. In compenso, il governo stesso – in un decreto attualmente all’esame della Conferenza Stato-Regioni, che speriamo lo affossi presto – ha stabilito che chi non supererà il test di lingua perderà 15 dei 16 punti assegnatigli, finendo dunque a ridosso della soglia di espulsione.

La questione, è bene chiarirlo, non è se sia giusto o meno che gli immigrati sappiano l’italiano. È una domanda retorica, da qualsiasi parte la si legga: sia che, con legittimo orgoglio nazionale, si chieda a chi vive qui di integrarsi; sia che, pensando alle difficoltà che lo straniero deve normalmente affrontare, si riconosca che la lingua è l’arma più efficace di autodifesa. È lo strumento per parlare con il proprio medico, per aiutare il proprio figlio a fare i compiti, per capire quali sono i propri diritti e doveri: per sentirsi, in una parola, sempre più cittadino. Messo dunque da parte l’approccio ideologico – ancora caro ad una parte minoritaria della sinistra – secondo il quale ogni lingua in più è un arricchimento culturale, dunque sarebbe l’impiegato delle Poste a dover imparare lo swahili per spiegare all’immigrato come si fa una raccomandata, rimane il problema pratico: come posso fare in modo che gli stranieri imparino la lingua? Il Centrodestra, dicevo, non si pone la domanda, affidandosi al volontariato – quello stesso volontariato, per inciso, a cui ha tagliato il 5 per mille – e alla capacità di arrangiarsi degli immigrati: tutto è visto nell’ottica della concessione, per cui da parte dello Stato non c’è nulla di dovuto. Il Pd, invece, quella domanda se l’è posta, trovando una soluzione praticabile e neppure troppo costosa: la promozione di un programma di lingua e cultura italiana da 30 milioni di euro l’anno, contenuta in una proposta di legge (a prima firma Livia Turco) che abbiamo presentato stamattina. Il testo non è ancora disponibile sul sito della Camera, ma è abbastanza semplice riassumerlo in poche righe. Innanzitutto, dicevo, lo Stato mette da parte 30 milioni di euro all’anno: un po’ li prende dai contributi pensionistici non riscossi dai lavoratori stranieri (non so se lo sapete, ma tutti i lavoratori immigrati che tornano in patria prima dell’età pensionabile non hanno diritto alla pensione, né alla restituzione dei contributi versati); un po’ dalle multe comminate ai datori di lavoro che impiegano in nero gli stranieri privi del permesso di soggiorno; un altro po’ ce lo mette di suo, perché comunque sta facendo un investimento sulla convivenza. Con questi 30 milioni, il suddetto Stato finanzia tre cose: i corsi di lingua e cultura italiana presso i centri territoriali permanenti (le scuole pubbliche) per l’educazione degli adulti; le sessioni gratuite di formazione civica (Costituzione, sanità, servizi sociali, lavoro, obblighi fiscali, istruzione) organizzate da Regioni e Comuni con le associazioni del settore, rivolte agli stranieri che hanno appena ottenuto il permesso di soggiorno; i corsi di lingua e cultura italiana all’estero, presso le sedi dei nostri istituti di cultura, per gli stranieri che vogliono venire qui (con precedenza a chi richiede il visto d’ingresso per ricongiungimento familiare, studio o periodi di lavoro medio-lunghi). Il datore di lavoro, a sua volta, è tenuto a riconoscere al lavoratore alcune ore di permesso (da una a tre) a settimana, per permettergli di frequentare i corsi. In tutto questo, anche lo straniero acquista un vantaggio: se dimostra di conoscere bene la lingua (livello A2), può ottenere il permesso di soggiorno per lungo periodo dopo tre anni anziché dopo cinque. Non so a voi, ma a me pare una proposta di elementare buonsenso, che – in una situazione politica a minor tasso ideologico di quella attuale – potrebbe essere votata dalla larghissima maggioranza del Parlamento. Purtroppo, come ben sappiamo, sarà difficile che ciò accada con questi compagni di viaggio.

Andrea Sarubbi – anche – per On the Nord

2 pensieri su “I panni in Arno

  1. Finalmente qualcuno che pensa di valorizzare una risorsa dello stato, i CTP-EDA, che esistono e fanno integrazione QUOTIDIANAMENTE.
    Prodi aveva tentato di fare qualcosa in tal senso: in ogni provincia i CTP-EDA avrebbero dovuto diventare un istituto indipendente a tutti gli effetti con il proprio direttore didattico e non come ora essere assegnati di volta in volta come plesso a questo o quell’istituto scolastico che lo tratterà come un’appendice un po’ strana. Avrebbero così potuto diventare un punto di riferimento dell’integrazione, il luogo dove gli immigrati, grandi e piccoli, venivano accompagnati per imparare la lingua e non solo.
    Naturalmente questo governo ha deciso che era meglio soprassedere…
    E allora viva Prodi e viva la Turco che di quel governo faceva parte.

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